Antonio di Bartolomeo

SPAZIO, VITA, FRAMMENTO ED EQUILIBRIO

Un ondeggiante Castello Estense inondato di luce meridionale. Una poderosa mano che accoglie una Ferrara partenopea. Un possente Savonarola che supplica sulle rive di un prato del Sud. Corpi in lacerante attesa, tra ponti, lavori in corso e Vesuvio. Ripropongono il tema, da sempre caro a Pasquale Sorrentino, della fusione di spazi, di luoghi, di forme e di atmosfere cromatiche.

La più recente produzione di Pasquale – quella che lavora con frame buffer e pixel e utilizza il display come tela – rivela l’eclettismo di un artista completo che, dalla scultura lignea, di Busti e Totem, alle pittosculture acriliche, e sino alle ultime sperimentazioni di computer art, è sempre andato alla ricerca di “supporti”, quanto più originali, in modo da offrire “spazi” continuamente “nuovi” alle sue creazioni artistiche. « Per me la tela, il supporto, è uno spazio, il luogo, in cui l’opera vive; la casa – ci dice Pasquale – in cui dimora l’opera d’arte ». Posta così l’indissolubile unità di forma e materia: sinolo costitutivo della “sintesi dimensionale”, l’arte di Pasquale aspira, anzitutto, a dar fondo e sfondo all’opera, come sospinta da una prioritaria esigenza di garantirsi lo spazio di cui ha bisogno; perché è l’opera stessa che reclama un luogo per “mostrarsi”. Per mostrarsi – ripetiamo – non per esibirsi. Il “fondo”, entro cui deve stanziarsi l’opera, e che pure occorre “produrre”, scoprire, trovare, scovare nei rivoli della propria creatività oltre che nelle alchimie della sostanza, non è mai un dettaglio, e non passa mai in secondo piano nella produzione artistica di Pasquale. Solo attraverso un’esplorazione continua di territori, vicini e lontani, e di “sperimentazioni” ed “esperimenti”, fini e sopraffini, è possibile conquistarsi, man mano, in una sorta di cosmopolitismo o nomadismo dello spirito, il proprio “spazio” artistico. Cammino che è anche il graduale recupero della “dimensione”.

L’arte di Pasquale si presenta così come denuncia della realtà nell’atto stesso in cui, con un dolce rintocco di pennello o col delicato scorrimento del mouse sul tappetino, rianima il reale ri-chiamandolo a “dipinto”. Una realtà, tuttavia, intessuta di architetture precarie, di coerenze impossibili, di logiche irrazionali, di figure ancestrali; una realtà che non si comprime nel mysterium e nell’astrattismo, ma si compie nel valore tautegorico del mito e del simbolo. Allora il frammento non rappresenta un confuso miscuglio di cose, una deformazione pretenziosa della realtà – tipica espressione di certa Art d’avant-garde, poco avvezza allo style, intenta solo a distruggere gli equilibri sin troppo fragili del nostro mondo, per lo più interessata a farlo esplodere – quanto piuttosto la personale ri-costruzione del reale, secondo il proprio “stile”, il proprio gusto, il proprio sguardo.

La pittura di Pasquale non è provocazione ma pura denuncia – ed è bene tenerlo a mente, se intendiamo davvero sintonizzarci con la sua opera – non nei termini di una blanda e moralistica accusa ai valori della nostra società civile, ma come progetto di rap-presentazione: una “messa in mostra” del nostro più autentico e presente “reale”.

L’opera di Pasquale, in tal modo, rievoca il risveglio della vita; e pertanto, si traduce in un risoluto appello: al recupero, e non già alla soppressione, del concreto e dell’immediatezza quotidiana. È denuncia e non abbandono dell’apparente armonia che regge il reticolo del Lógos. È un dar “visibilità” alla contraddizione, al frammento e all’assurdo, senza alcun timore di attestarne l’essenza.

Riannodando i termini del discorso, ora, proviamo ad osservare direttamente i suoi splendidi “quadri”. Per esempio, “Il distruttore di se stesso”. Rileviamo la dolcezza, quasi il candore, con cui il piccolo uomo e la piccola donna difendono l’equilibrio del quadrato, in un effetto ottico di sorprendente e geniale fattura. I due, privi di sostegno, sono intenti a compiere un’immaginaria piroetta, e non già per riportare le cose al loro posto, quanto per mantenere perlomeno in piedi le sembianze di una proporzione ormai compromessa e impossibile. Osserviamo anche “L’uomo, l’indole e la maniera”: l’aggiustamento curvilineo del corpo dell’uomo proteso sulla donna, è indispensabile, affinché la sua indole venga appagata, a prezzo di una risibile postura sia di lui sia di lei. Osserviamo, poi, “Beck’s”, dove il tentativo di rovesciare la birra da parte dell’ometto, per dissetarsene, si traduce in un mesto tiro alla fune, pericoloso per lui stesso, posto che, la bottiglia, col suo enorme peso, potrebbe ribaltarsi e schiacciarlo a terra. Infine, osserviamo “Equilibrio precario”, opera davvero indicativa di un mondo in balia dell’incerto e dell’instabile. Il povero tenero elefantino blue è in bilico sul picco di una serie di variopinti barili, disposti gli uni sugli altri in un improbabile incastro e pronti per crollare; sta cercando di salvare il proprio equilibrio come un acrobata circense, benché, anche, come un Don Chisciotte dinanzi ai mulini a vento. Ma non è irrazionale il suo gesto. Non è velleitaria la sua prova. Non è indegno il suo proposito. Non è vano il suo sforzo. Non è sprecato il suo esercizio, perché la vita è un’assurda lotta ginnica per mantenersi in vita.