EMILIANO D’ANGELO

Sorrentino ha verso la pittura un approccio marcatamente euristico, speculativo. E’ artista di contenuto e non di risultato. Non è ossessionato dal traguardo, ma dal percorso. Proprio per questa ragione, paradossalmente, troverà sulla sua strada qualcosa di cruciale e risolutivo – come i cavalieri della quete arturiana. Si corre il rischio di rimanere frastornati dalla quantità e dalla eterogeneità del materiale al suo attivo. Ma dietro l’inquieto affastellarsi di tecniche, di spunti iconografici e di ibridazioni semantiche, emerge con chiarezza una linearità di fondo, una matrice concettuale comune a tutto il suo percorso di ricerca: un’insofferenza acuta e insopprimibile verso l’unidimensionalità della tela nella raffigurazione classica. Beninteso, Sorrentino condivide questa inquietudine con buona parte dei pittori che si sono affacciati sulla scena a partire dagli anni sessanta. Ma le conclusioni che ne ha tratto mi sembrano molto personali. In breve, egli cerca la profondità nella pittura per acuirne la forza evocativa, piuttosto che per negarla o sottoporla a vaglio critico. Il suo abbandono graduale della scultura sembra motivato da un’intuizione che è la chiave di volta di tutta la produzione più recente: la pittura fa i conti con lo sfondo, che è tenebra e assenza. Essa sta alla scultura come la poesia sta alla prosa. La plasticità dell’immagine -se dotata di un’opportuna “cassa di risonanza”- può divenire ancora più lirica e struggente di qualunque forma modellata o scolpita. Mi riferisco soprattutto alle “sintesi dimensionali” di vago sapore metafisico dell’ultimo periodo, dove figurine antropiche in rilievo, incassate in uno spazio concavo tridimensionale, appaiono sorprese in torsioni lancinanti e gesti improbabili, mentre ingaggiano lotte disperate contro la gravità che le schiaccia sul fondo, contro la pressione della cornice, contro la campitura della tela che minaccia la loro identità inondandole di colore. E’ una metafisica “assertiva”, a mio giudizio: non mette in scena l’ “irrelatività delle cose” (Argan), ma lo sforzo dell’uomo di sottrarsi alla loro insensatezza, emergendo da una sorta di caos prefigurale. Di forte impatto evocativo sono anche gli impianti “cromoplastici” che precedono l’ultima produzione: come il monumentale ciclo dei Continenti, dove le forme (i rilievi geografici) sono addensamenti compatti di colore e materia che erompono dalla tela a suggerire figure umane gigantesche e profili teriomorfi, e dove ogni tentazione di ripiego in una visione olistica e consolatoria della Natura sembra essere frustrata dall’impiego di tonalità livide e stridenti, che denunciano la corruzione inesorabile del Sistema-Mondo. Volume, pigmento e materia sono le componenti basilari del discorso cromoplastico: tre fattori ostici che solo una mano tre volte sapiente poteva giungere a plasmare in unità inscindibile. E considero una fortuna che, dopo decenni di relativismo estetico (in cui la funzione valutativa veniva demandata al vaglio imponderabile della critica), si stia tornando a parlare dell’artista come di chi detiene un bagaglio tecnico, come di un “figlio di Prometeo”: un donatore di senso che addomestica la materia con dedizione inesauribile, senza cedere più all’istinto di violentarla.

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